Scrivere un articolo per bene (o almeno provarci)

Inchiostr, penna e calamaio

Scrivere un articolo. Il massimo sarebbe farlo di getto, nello stesso momento in cui si sta elaborando un pensiero, nello stesso momento in cui per la testa ci passano connessioni logiche e sensazioni, che non aspettano altro che essere fissate sul bianco della carta o sui pixel dello schermo.

Qualcosa di non filtrato, insomma, direttamente dal cervello allo schermo attraverso le mani e la tastiera (o alla carta via mani e una penna che scriva bene e sia morbida).
Quando c’è da scrivere qualcosa di più complesso invece, bisogna comunque rivedere quanto abbiamo messo giù, se regge, se la sintassi è corretta, se i tempi verbali sono collegati regolarmente tra loro, se tutto va bene, giusto per non tirare fuori un pezzo che sia uno sfondone, con sciatterie varie che vanno dall’ortografia al senso stesso di ogni singola frase.
Con il (secondo) lavoro che faccio ormai da due anni sono mio malgrado a contatto con tante forme di goffaggine o lascivia, sia lessicale, ortografica, che di forma: tutta una serie di comunicati stampa rassettati alla bell’e meglio, con apostrofi al posto di accenti, triplici punti esclamativi, spazi fra parole e virgole, e tanti altri casi di scarsa scrupolosità nello scrivere un testo, sia esso un solo paragrafo o un articolo lungo.

Il punto è che scrivendo per il web siamo costretti a utilizzare e conoscere alcuni strumenti che ampliano quello che produciamo. Se leggiamo un articolo su un giornale e capitiamo su una frase che ci rimanda a qualcosa, non possiamo di certo cliccarci sopra e vedere di cosa si tratta (al massimo possiamo appuntarcela e ricercarla successivamente); su internet sì: le possibilità che ci dà il concetto di ipertesto sono talmente tante che sarebbe praticamente possibile mettere il collegamento ipertestuale a ogni parola di quanto scriviamo, se non fossimo costretti dal contesto.

Ecco che un articolo può rivelarsi testimone di quello che stiamo sostenendo tramite l’attribuzione dei link a parole o frasi.
Di solito, quando scrivo, non mi piace linkare scrivendo “clicca qui” o “trovi il link qui” o qualsiasi altra formula standard; preferisco attribuire il link a un’espressione intera o a una parola che si avvicina maggiormente al concetto al quale mi voglio riferire. Se devo scrivere della storia del derby di Milano (come d’altra parte state vedendo voi stessi mentre state leggendo), non metto mai il riferimento vivo del sito al quale mi rifaccio per raccontarvela, ma seleziono la frase e ci metto il link. Il vantaggio è che io non pubblico stringhe lunghissime che sarebbero inguardabili all’interno del mio articolo e voi sapete che cliccando sulla frase evidenziata leggete proprio di quel tema.
Questo giochino si può fare anche nelle mail, ed è grazie al web 2.0 che ci possiamo permettere questa cosa. In più facciamo una bellissima figura con il nostro interlocutore, inducendolo a cliccare i link interni al nostro testo inviato per mail e già che ci siamo gli stiamo facendo vedere che sappiamo usare il computer (che non vuol dire solo saper salvare un documento in una cartella e ricordarsi dove lo abbiamo messo).

Questa che segue è una parte della mail che di solito mando per promuovere WordPress Web Communicator. Come vedete ci sono dei link che portano a pagine esterne alla stessa mail, che non osso raccontare nel corpo perché sennò rischierei di essere prolisso, ma che invitano il destinatario a cliccare per vedere di cosa si tratta:

Potete intanto farvi un’idea guardando questo breve video illustrativo, scaricando la nostra presentazione e guardando le immagini dei corsi precedenti su Pinterest.

Come vedete, nessun link visibile, facilità di lettura da parte vostra e ragionando dal punto di vista del conteggio dei click, segnare +3.

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