Lavorare tanto è vivere male?

Lavorare tanto è vivere male?

Ricomincio a scrivere su un blog dopo anni, e spero che adesso la vena creativa – parolona – non si esaurisca nel giro di questo post.
Ricomincio a scrivere dopo un anno passato a capire cosa fosse il lavoro duro, il successo e tutti quegli effetti collaterali che una vita dedita al lavoro produce, sacrificando inevitabilmente altri aspetti dell’esistenza. È chiaro che la storia che racconto sia soggettiva e basata sull’esperienza vissuta a contatto con una specifica realtà, ma mi chiedo se ci sia un comune denominatore che lega che lavora in maniera spasmodica ed eventuali problemi che questa completaa dedizione causa negli altri campi della vita.

Avere successo nel lavoro coincide con il trascurare la famiglia? Dedicarsi completamente alla propria vita lavorativa, significa sacrificare quella privata? Farle coincidere vuol dire praticamente l’impossibilità di scinderle, creando così dei compartimenti stagni? Oppure è impossibile salvare una parte a scapito dell’altra?

Sono stato a contatto con una persona – un responsabile della comunicazione – che stava tutto il giorno immerso nel proprio lavoro. Un rullo compressore. Sempre presente, sempre sul pezzo, sempre efficiente nell’espletamento della propria mansione. In cambio di una vita familiare sconnessa.
Non mi addentro nei particolari del privato, ma alla fine è risultato palese qual è stata la parte della sua vita che ha sacrificato.

Successivamente ho avuto un altro capo. Questo molto più sconnesso dalla realtà rispetto al primo. Una vita dedita al lavoro e all”accrescimento della propria azienda. Non mi addentro nemmeno qui nella sfera privata, perché non ho gli elementi per testimoniare particolari mancanzie eventuali, ma potendo immaginare una vita familiare, non la definirei propriamente classica da casa-e-lavoro. Impegni fitti e continui, rappresentanze della propria attività ovunque, comunque e sempre.

Ecco, la domanda che mi sono sempre fatto è stata: per loro, è un prezzo da pagare? Si rendono conto di essere completamente assenti da quella che si potrebbe definire vita familiare, o sono talmente dediti al loro lavoro che diventano insensibili a quello che succede in casa?
Certo, forse è una banalizzazione, e certamente anche velleitario il fatto di poter entrare nella sfera privata di chi lavora tanto e dà a vedere di non avere una vita familiare regolare – dove per regolare significa essere presente, quanto meno.
Ma la cosa comune che ho notato è che l’affermazione della propria professione non dà posto al resto, o non sembra farlo.

Chi invece scegliere di rimanere fra l’uno e l’altro mondo, fra il lavoro e la famiglia, battendo un colpo fra l’ufficio e casa, sembra rimanere frenato sia nell’uno che nell’altro senso: scegli di non aver tempo oltre il dovuto per lavorare per essere presente in famiglia, ma allo stesso tempo non hai le risorse necessarie per elevare economicamente le sorti della famiglia a cui ti stai dedicando.
Come a stabilire un’equazione dove più lavoro equivale a meno famiglia, mi piacerebbe trovare delle eccezioni a questa eguaglianza, come di sicuro penso che ci siano.

Per adesso mi godo la mia situazione che mi permette di rimanere in famiglia, alternandola al lavoro – anche da casa – e permettendomi di essere appagato, maggiormente rispetto all’ultimo inverno, per essere presente anche in casa.